Rehab in pillole #7: Demoni

Sì dottore il giorno in cui ho compiuto 18 anni me lo ricordo bene. Una sera di novembre, durante la quarta liceo, sto uscendo da un locale del centro di Trieste insieme al mio nuovo ragazzo. Si chiama David, ha la mia età ed è quel tipo un po’ bello un po’ strano un po’ femminile di cui ero solita invaghirmi in quegli anni. Abbiamo passato la serata a commentare le coppiette sfigate al bancone, a bere mojito e infilarci le mani nei vestiti di nascosto sotto il tavolino. I suoi sono via per il weekend e questo significa che ci aspetta un fine serata a casa sua a scopare in ogni stanza.
Al ritorno stiamo percorrendo una vicolo deserto quando mi chiede di fermarci un attimo al distributore per prendere i preservativi che li abbiamo finiti. Decido di accendermi una sigaretta e noto un gruppo di cinque ragazzi venirci incontro, probabilmente per rifornirsi anche loro di nicotina. Sembrano un po’ su di giri, forse ubriachi, forse fatti di qualcos’altro. Mentre ci stanno per passare a fianco uno di questi dice qualcosa di incomprensibile che suona palesemente come un apprezzamento sessuale non troppo educato nei miei confronti. David se ne accorge e si volta d’istinto suscitando subito un – E tu che cazzo guardi?
Restiamo un attimo impietriti. Un altro ragazzo del gruppo ha notato la confezione di preservativi nelle sue mani e gliela sfila di mano con un gesto veloce – Fammi vedere che cazzo hai comprato – la mostra ai suoi amici – Uhh, stasera si scopa! – mimando un movimento sessuale col bacino. Gli altri ridacchiano mentre lo circondano.
David allunga un braccio titubante per riprenderla – Dai ragazzi… piantatela… – cercando un po’ di autorità ma la voce gli esce tremante come quella di un bambino che ha perso la mamma. Il ragazzo più alto, con i capelli rasati da un lato, gli vola in faccia e gli molla un ceffone da fargli girare la testa – Chi cazzo ti ha detto di parlare?! – lo piglia a schiaffi violentemente poi lo spinge contro un suo amico che gli molla altri due ceffoni e lo spinge a sua volta contro il terzo, e così iniziano a rimbalzarselo come un palla mentre lo gonfiano di botte. Infilo una mano in tasca per prendere il telefono e chiamare qualcuno velocemente, la polizia, un amica, non so ancora… Ma per qualche motivo non lo faccio. Resto lì, immobile, ammutolita, a guardare David per terra, rannicchiato come un sacco dei rifiuti che piagnucola impaurito mentre viene preso a calci dal branco.

Dottore, mi piacerebbe dire che è stato per lo spavento, che sono rimasta inerme perché ero terrorizzata. Ma non è così. O almeno, solo in parte. La verità è che volevo… vedere.

Alla fine il tipo più alto gli molla un ultimo calcio – Vai a casa sfigato – poi mi passa di fianco sorridendomi con arroganza – Ma tu davvero ti fai scopare da sta mezzasega? – qualcuno mi mostra la lingua, qualcun altro mi fa il gesto di una fellatio e spariscono nella notte. Sono salva. Forse.

All’1:30 siamo sul divano di casa sua a bere una tisana calda per riprenderci dall’episodio. David è ancora ammutolito, ha la faccia gonfia, la schiena dolorante e lividi su braccia e gambe. Cerco di coccolarlo un po’, lui dice che va tutto bene, di dargli solo 10 minuti per stare da solo e così vado a farmi una doccia.

Alle 2:10 siamo sul letto dei suoi a scopare. David ansima sopra di me, mi bacia il collo, mi morde le orecchie, ce la mette tutta per farmi venire. Ma io sono concentrata su altro. Per qualche ragione non riesco a togliermi dalla testa quell’immagine: la sua espressione penosa e terrorizzata mentre veniva gonfiato da quei ragazzi. La sua voce tremante e patetica mentre piagnucolava di lasciarci andare. E la cosa mi eccita da morire. David continua a scoparmi ma io ho solo voglia di sputargli in faccia, di prenderlo a ceffoni. Vorrei dirgli che è una femminuccia, una frocetta mezzasega sfigata e farlo schizzare in mano per fargli mangiare la sua sborra con i tutti i suoi spermatozoi inutili e rammolliti come lui. Mi rendo conto che ho bisogno di questo per venire. Ma so che non posso chiederlo, non posso averlo. Allora afferro le lenzuola, inarco la schiena e inizio a fingere un orgasmo per mettere fine a questo supplizio insopportabile.
– Scusa, arrivo subito – gli dico senza neanche guardarlo in faccia. Mi alzo, mi rimetto le mutandine ed esco dalla stanza.

Entrata in bagno, giro la chiave e senza neanche starci a pensare mi siedo sul cesso e mi infilo una mano in mezzo alle gambe. Inizio a masturbarmi violentemente. Come per un velenoso desiderio di sfregio mi immagino di scopare con quei ragazzi che ci hanno aggrediti, di fare la troia con loro. Penso ai loro sguardi su di me, alle botte al mio fidanzato, alle loro parole sprezzanti, ai loro uccelli duri stretti nei pantaloni e in pochi secondi vengo con un orgasmo soffocato. Poi abbasso la testa. Riprendo fiato. E inizio a piangere. Prima qualche lacrima poi sempre più forte. Talmente forte che David sta bussando alla porta chiedendomi che succede, se va tutto bene. È preoccupato e mi implora di aprire. Io gli dico di andare a dormire ma le mie parole vengono continuamente interrotte dai singhiozzi.

Dottore, quando nell’adolescenza pensavo di essere cattiva, quando Giorgia e Sara mi davano della stronza, ci ridevo sopra. Ci giocavo sopra. Era parte del mio “personaggio”. Un po’ come quelli che ascoltano i Cure e fanno i finti depressi. Non sono davvero cattiva, ho sempre pensato dentro di me, sono solo una furba che gioca con le ipocrisie della gente. E’ sempre stata una bella sensazione, sentirsi più intelligenti, più avanti degli altri. E poi arriva un giorno in cui, improvvisamente, scopri che non c’è più niente di divertente. Che è tutto vero. Non è un gioco, una posa, un personaggio, sei davvero una persona sbagliata. Ed è quello che ho provato in quel momento, chiusa in quel bagno, circondata dalle tenebre. Con la testa tra le mani e le lacrime che continuavano a scendere era come se sentissi calare intorno a me una soffocante nebbia nera fatta di volti mostruosi, che piangevano e ridevano insieme in un orribile canto stonato. Occhi gialli, allucinati dalla follia e bocche deformate da smorfie grottesche che mi sbavavano addosso, come a rivendicare la mia anima, come se fossero venuti a prendermi. E’ questo quello che sono? Nelle mie vene non scorre il sangue di Sara, di Giorgia, delle mie compagne, ma quello di Donatien-Alphonse-François, delle iene della savana, di Charles Manson e delle SS naziste?

Nella mia testa continuavo a ripetermi – Andate via. Non sono come voi. Andate via… – Intanto l’orologio sulla mensola aveva segnato la mezzanotte e un nuovo messaggio lampeggiava sullo schermo del telefono: “Auguri Alex, benvenuta nei 18”.

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