Maionese

– Ho voglia di ammazzare qualcuno.
Non ricordo a chi delle due sia venuto in mente, se a me o a Ramada, sta di fatto che dal momento che abbiamo ancora due giorni liberi prima di tornare a Trieste, stiamo passeggiando per le strade di Santa Margherita, in quel posto esclusivo per ricchi stronzi chiamato Liguria. Durante il pomeriggio siamo state a Portofino, abbiamo fatto una passeggiata sul molo e dopo aver trovato uno yacht incustodito, una scintillante imbarcazione dai vetri oscurati stile mission impossibile dal nome “Prestige”, ci è bastato guardaci un attimo per capire che dovevamo assolutamente provare ad imboscarci. Abbiamo scroccato champagne dal frigo, rubato vestiti di Prada e scopato sul letto ovale dalle lenzuola di seta mentre una famiglia brianzola con bambini nazisti ci guardava sorridente dalla foto sul comodino. Verso le 18:43 stiamo tornando dal molo con due triangoli di focaccia salata tra le mani. E’ a quel punto che come niente fosse Ramada, con la bocca ancora masticante, mi confessa
– Ho voglia di ammazzare qualcuno.
Sul momento non ci faccio caso e continuiamo a camminare per un po’, in silenzio, con la mente che ondeggia tra il paesaggio e la focaccia. Poi però mi fermo, perché capisco che Ramada si sta aspettando una risposta, una reazione. Non era una frase buttata lì tanto per. C’è qualcosa sotto.
Continuando a masticare aggrotto la fronte e le faccio un cenno interrogativo come a dire “Cazzo dici?”
Lei butta giù l’ultimo pezzo di focaccia, si lecca le dita e, con calma, mentre tira fuori le salviettine, mi spiega – Beh guardati intorno, non pensi sia giusto che qualcuno muoia? – col tono un po’ stanco di chi sta ripetendo qualcosa di noiosamente ovvio.
– Ma giusto… per cosa? – chiedo come fossi stupita, quando ormai, con lei, sono preparata a qualsiasi cosa.
– Beh, per una questione di giustizia no? Di equità. Milioni di stronzi crepano senza motivo dopo una vita d’inferno mentre a questi il peggio che può capitare è che lo schiavo filippino si è dimenticato di dare la cera al pavimento dello yacht. E’ chiaro che qualcuno deve morire.

Venti minuti più tardi siamo imboscate in un angolo dietro ad un muretto che accompagna tortuoso una stradina di pietra che sale per la collina. Io mi sto fumando una sigaretta appoggiata ad un’auto mentre Ramada, accovacciata per terra, sta sbattendo la testa brizzolata di un cinquantenne in golfino verde e Tods ormai privo di sensi contro lo spigolo dello scalino di cemento. Ad ogni colpo un spruzzo rosso da quello che una volta era un naso va ad aerografare il grigio della parete creando una sorta di street art moderna in stile Bansky. Dovrei essere scossa da quello che stiamo facendo ma accanto a lei ogni cosa, anche la più surreale, diventa in qualche modo normale. E le cose normali finiscono per diventare surreali, in un flusso allucinato di eventi a cui mi sono arresa da tempo.

– Vuoi ancora un po’ di vino bianco? – Alle 20:03 siamo sedute ad un tavolo con vista mare di uno dei ristoranti più costosi del posto tra una tavolata di briatori in camicie bianche ed una di barbare d’urso con facce di plastica più una nota influencer con la faccia da triglia.
– Che c’è? Non ti piace la polpa di granchio? – mi accusa interrogativa, stupita che non mi stia abbuffando come lei. Per tutta risposta poso la forchetta e mi metto a guardarmi intorno. La tv appesa sopra il bancone sta passando la hit dell’estate di un cantante italiano che è uguale alla hit dell’estate scorsa di un altro cantante italiano. Mi chiedo se non sia sempre la stessa persona a scrivere queste canzoni. Probabile. Poi penso che questo senso di déjà vu è spaventosamente simile a quello che provo quando torno in Italia. Quando sto a Trieste, quando sto a Milano, quando viaggio per il paese. Come se le cose qui non cambiassero mai. Come se ogni anno fosse solo una copia più o meno sbiadita del precedente. Fino a che le persone perdono la testa, si buttano nei complotti, nelle sette, o decidono di votare per una bionda fascista sostenuta da neonazisti giusto per vedere cosa succede. Per vedere se cambia qualcosa.
– Ramada… – un momento di lucidità mi fa tornare alla realtà – …abbiamo ucciso una persona.
Lei alza lo sguardo e continuando a masticare mi fa spallucce con un mezzo sorriso a metà tra l’indifferente e il divertito. Puccia un grissino nella maionese e inizia a disegnare una grechina in stile maya intorno al branzino.
– Lo sai che i giapponesi la fanno bollire? – mi spiega con le testa nel piatto, concentrata nella sua opera d’arte.
– Cosa? – le chiedo infastidita come ogni volta che cambia argomento per sfuggire a qualcosa.
– La maionese – da un’ultima pennellata e si tira su ad ammirare soddisfatta il suo capolavoro – la fanno bollire e ci fanno una zuppa. Zuppa di maionese calda. L’ho visto in un documentario. Tu non ci crederai ma in Giappone esistono un sacco di ricette assurde fatte con la maionese. Roba che neanche ti immagini. A Sapporo ad esempio la usano per…
– Ramada – la interrompo – non me ne frega un cazzo della zuppa di maionese e di quello che ci fanno nell’Hokkaido.
– Ok ok… – posa il tovagliolo in segno di resa – lo so a cosa stai pensando… – mi prende la mano come a cercare di rassicurarmi – …ho capito ho capito, ma non ti devi preoccupare per quella bambina.
Già, quella bambina.
Poco prima che Ramada finisse il suo lavoro con lo sventurato riccone in golfino verde un rumore di piccoli passi in scarpe da ginnastica ci aveva fatto voltare in direzione del porto. La bambina dai riccioli biondi che stava fissando la scena non disse nulla ma era terribilmente ovvio che si trattasse di sua figlia.
– Hey, la vuoi vedere una magia? – in un guizzo perverso di macabra improvvisazione, come a tentare di rompere l’imbarazzo, Ramada sollevò la testa molle del papà brizzolato e la mostrò al suo unico spettatore, come un numero di prestigio ad una festa di compleanno
– Guarda, non c’è più il naso.
Senza scomporsi e senza cambiare tono Ramada mi versa da bere – …ti ripeto, non devi preoccupare per quella mocciosa. Lo sai che ci sono migliaia di bambini che muoiono ogni secondo nelle miniere africane dove estraggono il quarzo o quale altro cazzo di metallo prezioso che serve a fare i nostri telefoni del cazzo? – dal tavolo dei briatori una fragorosa risata di gruppo accoglie la fine della frase con un tempismo da cabaret. Ramada prosegue – Quella bambina frequenterà comunque le scuole in svizzera, andrà a studiare a Londra, conoscerà un altro stronzo coi soldi, si sposeranno in una cerimonia da stronzi, compreranno una casa da stronzi, un’auto da stronzi e fonderanno una start up da stronzi che vende fragole biologiche a Milano sfruttando manodopera a base di schiavi clandestini – si pulisce la bocca con il tovagliolo – fidati, non abbiamo cambiato nulla del suo futuro. Al massimo le abbiamo evitato qualche weekend a rompersi i coglioni su un campo da golf e accelerato di un poco la sua eredità.
E’ incredibile come ogni volta riesca in qualche modo a sembrare convincente.

Alle 10 siamo fuori dal ristorante in cerca di alcol e bamba. Il sole è calato quasi del tutto illuminando le nuvole di un bagliore rossastro che fa molto “Alba della preistoria”, tanto che i gabbiani sopra di noi mi appaiono come pterodattili in cerca di cibo. Mentre ci addentriamo nuovamente per i vicoli passiamo ancora una volta dal luogo del crimine ma stranamente non vi è più traccia né dell’uomo né della bambina né tantomeno del sangue sul muretto. Ancora una volta vengo attraversata da una sensazione di spaesamento. Ma è successo sul serio? Tutto d’un tratto il ricordo di quella scena mi appare come un’allucinazione. Come fosse accaduto in una un’altra realtà, in una dimensione parallela. Poi mi sembra di sentire il suono di una sirena in lontananza. Forse è arrivata la polizia e hanno ripulito tutto… In fondo siamo a Portofino…. Cerco risposta negli occhi di Ramada ma malgrado tenti di mascherarlo il suo sguardo è confuso quanto il mio. Abbiamo davvero ucciso qualcuno? Ormai non so più a cosa credere, non so se dovrei tirare un sospiro di sollievo o iniziare ad allarmarmi ma la verità è che in fondo non me importa niente. E anche fosse sono comunque troppo fatta per razionalizzare.

Alle 11:23 siamo tornate in albergo, abbiamo chiuso la porta e ci siamo buttate sul letto a scopare. Ramada mi tiene il clitoride tra il pollice e l’indice leccandolo con la punta della lingua per mandarmi fuori di testa. – Ramada ti prego smettila… non così… è troppo sensibile…
Conosce i miei punti deboli e stasera ha voglia di torturarmi – E quindi? Che succede se continuo? – mi provoca strafottente sapendo benissimo cosa le chiederò.
– Se continui… ho bisogno… che mi infili due dita dietro… – sussurro.
– Non ho sentito bene… – che stronza – …ripetilo ad alta voce. Fatti sentire da tutto l’albergo che sei una cazzo di troia che vuole due dita nel culo.
Con la mano sinistra va a cercare il tubetto di lubrificante sul comodino. Lo trova, lo porta sopra il mio sedere, lo strizza, ma tutto quello che ne esce è una scoreggina d’aria seguita da una timida gocciolina trasparente – Cazzo è finito – sbuffa. Poi si alza – non ti muovere, arrivo subito – col tono sicuro di chi ha già un piano di riserva. A quattro zampe con la testa bassa tra le lenzuola sento il bacio gommoso di un frigo che si apre e due secondi dopo la vedo tornare con un barattolo dall’etichetta vagamente familiare. Svita il coperchio, ci infila due dita dentro e le tira fuori ricoperte di maionese di sottomarca. Non faccio neanche tempo a chiederle se è sicura di quello che sta facendo che mi ha già penetrato fino in fondo con le dita unte di quella merda gialla da supermercato.

Ventiquattro minuti e due orgasmi più tardi siamo sdraiate una opposta all’altra, con le gambe ancora intrecciate. Ramada allunga un braccio a raccogliere il telecomando dal pavimento e accende la tv su un reality in cui dei tizi con facce da morti di fama devono rimorchiarsi a vicenda a bordo di una crociera per finti ricchi.
– Sai che ci pensavo l’altro giorno… – si accende una sigaretta – ..dovremmo andarci una volta.
– Dove? – le domando con la testa ancora persa nel soffitto.
– A fare una vacanza… in uno di quei “cosi”. – In tv un ventenne con la faccia da quarantenne sta parlando del significato del suo tribale ad una biondina col naso rifatto che dice di essere una commessa ma che il prossimo anno vuole andare ad X-Factor.
– Sai, tutte quelle stanze, quei corridoi, quei saloni… Un labirinto di nascondigli, anfratti e posti segreti… Hai idea della quantità di cose terribili che si possono fare? – si mette per un attimo a cercare i il posacenere ma poi, senza troppi scrupoli, allunga la mano a scenerare sulla moquette. – Cazzo, mi eccita solo il pensiero… Secondo me dovremmo proprio andarci. – conclude sicura – E poi credo che…
– Scusami – la interrompo – ma in questo momento non riesco proprio a seguirti.
– Che succede?
– Niente. Mi sento sporca.
Ramada spegne la sigaretta sul lenzuolo, viene a sdraiarsi dalla mia parte e mi passa le dita tra i capelli – Ancora per la storia di prima? La storia della bambina? Alex, tu… pensi che l’abbiamo fatto davvero?
– No… – le prendo la mano e la guardo negli occhi – …penso che ho bisogno di un bidet perché sento che mi sta colando la maionese dal culo.

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