Tokyo, Mon Amour

Come un chirurgo durante la più delicata delle operazioni il giovane fotografo dagli occhi a mandorla si è chinato a frugare nella sua valigetta con gli strumenti per tirare fuori una specie di doppia lente dalla forma rettangolare. Seduto su uno sgabellino con le mie caviglie tra le mani mi sta esaminando le dita dei piedi da quasi venti minuti.
Prima ha passato in rassegna le mani, poi ha fatto cenno ad un’assistente e le ha sussurrato qualcosa. Questa è corsa a chiamare un altro ragazzo che è arrivato con un tablet ad ascoltare le osservazioni del fotografo. Due ore di segni, indicazioni e frasette in giapponese con, ogni tanto, qualche sorriso verso di me per rassicurarmi che stava andando tutto bene.

Il bello di lavorare a Tokyo è che l’ospitalità nipponica è qualcosa di assolutamente ineguagliabile. Ti vengono a prendere all’aeroporto in un’auto dai vetri scuri, ti accolgono al Park Hyatt come una star di Hollywood e ti fanno sentire sempre come se fossero in grado di darti all’istante qualsiasi cosa tu voglia o abbia bisogno. Che sia un piatto di sashimi, una bottiglia di champagne o un iPhone nuovo perché del tuo ti ha stufato il colore.

Il rovescio della medaglia è che se sei una modella con un ego grande come la Tokyo Tower come la sottoscritta la rinomata dedizione giapponese per la perfezione può rivelarti dei difetti nella tua bellezza che nemmeno pensavi di avere. Come ad esempio una simmetria solamente del 98% delle mani, così che, per un dettaglio di uno spot, mi dicono che faranno due scatti differenti della mia mano destra e poi ne specchieranno uno.
Ma la perfezione non è un valore assoluto per ogni parte del corpo. I giapponesi ad esempio non amano particolarmente i sorrisi da volantino odontoiatrico, bensì preferiscono alcune piccole imperfezioni come i canini leggermente sporgenti. Dettaglio per cui vanno pazzi e motivo della mia selezione.
Quello che invece fa ridere è che sull’aereo, poco prima dell’atterraggio, ti fanno compilare il classico questionario dove dichiari di non avere la lebbra o di portare sostanze illegali e tra queste c’è la detenzione specifica di materiale pedopornografico e una più generica di “materiale osceno e offensivo”. Poi tu scendi dall’aereo, entri in un Seven/Eleven qualunque e di fianco alle merendine ci trovi pile di riviste con modelle conciate come ragazzine delle medie e fumetti con scolarette che si fanno seviziare da animali o alieni.
Come a dire “Grazie del pensiero, ne abbiamo già in abbondanza”.

Il mio fotografo sposta la lente dagli occhi, alza la testa e chiama di nuovo la sua assistente che mi traduce sorridendo
– Toyama San le fa i complimenti per i suoi piedi, davvero perfetti.
Ringrazio gentilmente e la giovane donna mi spiega che ora dovranno decidere il colore
– Il colore?
– Sì, il colore dello smalto, che si dovrà intonare col Prodotto.
Il Prodotto è una cavigliera di platino dal costo di un SUV ma le prove, mi spiega, verranno fatte al computer insieme al resto dello staff e questo significa che, grazie a Dio, per oggi sono libera di tornare in albergo.

Sono le nove passate, per le strade di Ginza sta ricominciando piovere e io mi sto coprendo con la giacca perché non ho assolutamente voglia di lavarmi i capelli per la terza volta in una giornata.
Dovrei anche mangiare qualcosa, penso mentre guardo le insegne e gli interni dei locali ai vari piani dei grattacieli. Per lo più ristoranti di alto livello, dove per un piatto di sashimi ci va un’ora e mezza e una banconota da 5.000 yen. E poi mangio pesce crudo e zuppe di miso da due giorni, ho voglia di schifezze. Giro l’angolo e mi infilo sotto un ponte, in un vicolo minuscolo pieno di baracchini affollati da orde di salarymen che si ingozzano di birra e spiedini. Ne scelgo uno con un’insegna che mi ricorda quel film di Kitano in cui fa il samurai, mi siedo su uno sgabello ricavato da alcune casse di verdura e ordino dei gyoza e una Kirin.
Mentre bevo la mia birra aspettando che i ravioli si cuociano sopra una specie di davanzale riscaldato da un fornello da campeggio due ragazze alla mia sinistra si presentano per fare conoscenza. Si chiamano Kaori e Izumi, vengono dal sud del Giappone, dal Kyushu, e sono entrambe vistosamente ubriache. Kaori è una dentista, parla con la voce squillante di chi è sempre allegra, ha una faccia simpatica e dopo neanche due minuti di conversazione mi ha già consegnato il suo biglietto da visita dicendomi che ha una casa a Kagoshima con una onsen naturale e che devo assolutamente andarla a trovare. Izumi invece parla meno, ha un trucco aggressivo, due piercing al sopracciglio, due denti palesemente finti e i capelli colorati e rasati da un lato. A prima vista si direbbero una coppia ma parlandoci mi rendo conto che forse sono solo due amiche. Forse addirittura si sono conosciute questa sera…
Alla mia destra un salaryman ubriaco con la faccia sudata di un Mino Reitano orientale ha sentito che sono in parte italiana e ogni tanto si avvicina per ripetermi parole come “Ferrari!” o “Alfa Romeo!”
Mentre cerco di pensare a qualcosa di carino da rispondergli arrivano i miei gyoza, sugosi e bruciati come la più cancerogena delle porcherie. E, manco a dirlo, sono assolutamente deliziosi.
Kaori mi offre un bicchiere di shōchū, un distillato tipo sakè, mi spiega, ma molto più forte. Lo mando giù tra un boccone e l’altro, quasi in una golata davanti allo sguardo di ammirazione della dentista del Kyushu. Non era poi così forte…
Izumi nel mentre ha preso il posto del Mino Reitano giapponese alla mia destra e mi sta toccando i capelli, spostandomeli dal viso
– Sei bellissima. – mi dice facendo appello al massimo del suo inglese
– Grazie – è davvero bruttina ma per gentilezza le rispondo – Anche tu.
Lei arrossisce e mi abbraccia, come fossi una sua vecchia amica. C’è qualcosa di profondamente dolce ma nello stesso tempo profondamente triste in questo slancio di affetto verso sconosciuti, qualcosa che mi porta un turbine di nuovi pensieri… ma per il momento li lascio da parte e mi godo le coccole delle mie due nuove amiche.
Kaori ordina un nuovo giro di shōchū e inizia a chiacchierare col cuoco, un tipo simpatico che pare abbia la passione per il surf.
Izumi mi prende una mano e mi da un bacino sulla guancia
– Mi piaci – mi dice timidamente. Cazzo è proprio bruttina, penso mentre ricambio con un sorriso. La guardo bene, sotto quel look un po’ volgare da punkabbestia ha uno sguardo tenero, lo sguardo di chi conosce bene la solitudine e sogna di innamorarsi di nuovo.

Mancano pochi minuti a mezzanotte quando le ragazze mi chiedono di andare con loro in un altro locale a Roppongi, un locale con musica reggae dove pare suoni una band molto popolare da quelle parti. Le ringrazio ma sono proprio stanca e credo che tornerò in albergo. Dico queste parole mentre mi alzo e per poco non perdo l’equilibrio finendo contro il bancone. Tutta la gente nel locale ride divertita, mi rendo contro di essere davvero ubriaca.
– Hai visto che il shōchū non è così leggero!
Kaori e Izumi si alzano anche loro, paghiamo, ci abbracciamo e poi ci salutiamo. E io resto lì, a guardarle mentre si allontanano nelle vie della città. Chissà se le rivedrò mai più.

Tornata sulla via principale di Ginza sto camminando a passo spedito con i Depeche negli auricolari. La metro è ormai chiusa e dal momento che ho voglia di passeggiare ho deciso di non prendere il taxi e di farmela a piedi fino al mio hotel a Shinjuku. Ogni scorcio, ogni angolo di città che attraverso mi offre un numero illimitato di immagini e fantasie: chissà dove sta andando quel salaryman che è appena entrato in quel vicolo buio… e quella donna che sta fissando la vetrina con gli occhi lucidi, è appena stata lasciata o sta pensando a qualche ricordo triste di qualche delusione amorosa? E quella bella ragazza che sta entrando in quell’ascensore, una modella come me che torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro… o una prostituta che sta andando a soddisfare i feticci perversi di qualche pezzo grosso del quartiere?

Arrivata a Kabukichō mi fermo davanti all’entrata di un Girls Bar. Sull’insegna ci sono dei volti patinati di ragazze con dei nomi: Mayumi, Yuki, Arisa, Maiko e Shiho. Per 6.000 yen, c’è scritto, puoi prenderti un drink e parlare con una di queste fanciulle per mezz’ora, mentre se vuoi proseguire la conversazione il prezzo ovviamente aumenta. Poco più in là invece c’è un posto in cui altre ragazze sono pronte a fare il bagno con te per appena 12.000 yen e, poco più in là ancora, un altro locale per bagnetti zozzi ma con i maschietti al posto delle femminucce. Almeno così pare dal cartello.

Passati altri centri massaggi non ben identificati ed entrate misteriose con scalini che scendono da cui ogni tanto esce qualche salaryman, vengo colpita da un’insegna nera al secondo piano di un palazzo sull’angolo.
Il simbolo è quello di un tacco con alcune manette e ha tutta l’aria di essere un club sadomaso. Resto a pensare per qualche minuto, tutta l’aria di perversione che mi circonda, unita ai volti sudati degli uomini d’affari e quelli, ancora più loschi, sulle porte che cercano di attirare dentro i passanti da un lato mi lascia un senso viscido di disgusto, ma dall’altro mi fa bruciare le budella di curiosità…
Un addetto alla sicurezza del club mi si avvicina educatamente e mi dice che generalmente i gaikokujin (gli stranieri) non sono ammessi ma dato che sono una bella ragazza… se voglio mi possono far entrare.
La tentazione di sbirciare è forte ma alla fine penso che sono già stata in un club sadomaso una volta e non era niente di che. Qualche spettacolino triste con una mistress obesa con l’età di mia zia che versava la cera calda su un tipo albino con la maschera da cane e gruppetti di sfigati che mi abbordavano goffamente con dei “Buonasera Padrona, posso presentarmi?”
Così declino l’invito, ringrazio il tipo che mi lascia comunque un volantino del locale, e mi reco verso l’hotel.

Sono le due passate quando esco dalla doccia e mi distendo sul gigantesco letto della mia suite con vista al ventiduesimo piano del Park Hyatt.
Domani ho un’altra giornata pesante e teoricamente dovrei essere a nanna già da un’ora…
Accendo la tv sui canali porno: sul numero 1 una studentessa se la sta facendo leccare da una sua compagna facendo quei versetti acuti che tanto eccitano i maschi nipponici mentre sul 2 una donna vestita di pizzo si sta facendo sbattere violentemente davanti al marito che guarda impotente con l’uccello di fuori.
Mi infilo una mano tra le gambe ma mi rendo conto che sono troppo eccitata per masturbarmi e forse non ho neanche voglia di scopare. Dopo anni di vita sessuale guidata dal sadismo l’atmosfera della nottata mi ha lasciato addosso una voglia torbida di sprofondare, per la prima volta, nella sottomissione, nell’umiliazione. Di lasciarmi annegare nell’abisso più buio delle mie fantasie masochistiche.
Inizio a pentirmi di non essere entrata in quel locale e proprio in quel momento noto qualcosa sul volantino che spunta dalla mia borsetta sulla poltrona.
Sul retro, oltre alle date delle serate, c’è il numero di un servizio BDSM domicilio con alcuni profili di rinomate “Top Mistress” del sol levante.
Resto per qualche minuto col foglietto in mano a pensare, poi mi dico “fanculo” e alzo il telefono.

– Moshi moshi? – una voce maschile risponde dall’altro capo
– Buonasera, ho trovato il vostro numero su un volantino di un locale e…
– Questo è servizio BDSM… – mi interrompe subito iniziando a parlare un inglese un po’ affettato – …no sesso, no penetrazione, no rapporto orale, no toccare la Mistress… – rimane un po’ in silenzio – …ma lei non è giapponese?
Resto un attimo basita. Mi aspettavo qualche domanda o perplessità sul fatto che fossi una donna, invece il primo problema sembra di nuovo essere se sono giapponese o meno.
– No, sono italo-canadese…. Anche se in realtà sono nata in argentina.
– No capito. Lei argentina? Canadese? O italiana?
– Sì, sono italiana – taglio corto per farla veloce.
Ancora qualche secondo di silenzio
– Lei caucasica?
– Sì, più o meno.
– Più o meno?
– Sono nata in Sud America, tecnicamente sarei latina ma se guardiamo i connotati…
– “Cannotati”? Cosa intende con “cannotati”?
La conversazione sta diventando assurda
– Senti, ho i capelli biondi, gli occhi azzurri e la carnagione chiara, come ti sembro?
– Mmmh caucasica.
– Ecco, bravo. Vuoi anche la gradazione cromatica del colore della pelle o tutto questo è già sufficientemente razzista?
– No – mi risponde seriamente – Non è necessario, basta sapere che caucasica.

L’orologio di fianco al letto segna le 3:15.
Alla tv una finta giornalista è costretta a leggere le previsioni del tempo mentre dei maschietti arrapati coi loro pisellini in mano passano di tanto in tanto a schizzarle sugli occhiali ma io sono distratta a guardare fuori dalla finestra. Tokyo giace silenziosa con le sue luci, i suoi segreti, e un brivido mi attraversa la schiena mentre penso a tutte le storie che si porta dentro. Storie d’amore, di affari, di morte… storie che non verranno mai raccontate.

Qualcuno bussa alla porta.
La mia Mistress è arrivata.
Mi ricompongo un attimo, spengo la tv e mi annuso le dita: cazzo mi sono toccata due secondi e puzzo di ditalini da far schifo.

Mentre mi lavo le mani mi rendo conto che ho fatto questa cosa in assoluta leggerezza, presa dall’eccitazione, dalla curiosità e dal fatto di essere lontana mille miglia da casa, in un posto dove ti senti come all’interno di una bolla, diversa, invisibile, intoccabile. Ma ora inizio ad avere dei dubbi: e se fosse brutta? O vecchia o grassa? Se avesse un viso che non mi piace o l’alito cattivo? Insomma, se fosse meno figa di me riuscirei ugualmente a lasciarmi sottomettere?

Apro la porta e in un attimo tutte le mie preoccupazione spariscono come d’incanto.
– Konnichiwa!
Una ragazza con un elegante vestito nero mi saluta sorridendo.
Mioddio, è bellissima.
Ha i capelli neri un po’ raccolti e un po’ che le scendono ai lati del viso, il trucco nero e un rossetto rosso che risalta dalla sua pelle bianchissima. Dice di chiamarsi Mahiro e a occhio e croce sembra avere non più di 25 anni ma considerato il DNA nipponico potrebbe anche averne 30 o più.
Dopo aver sistemato le sue cose su una poltrona si avvicina e mi prende le mani, in un gesto quasi intimo. Il suo sorriso apparentemente dolce dai denti bianchi e un po’ storti unito ai suoi occhi duri e impenetrabili le danno un’aria di malevolenza e perfidia mai vista. Non mi era mai capitato di essere in soggezione davanti ad una ragazza per il suo sguardo.
Mahiro si fa seria, appoggia la sua fronte contro la mia e mi fissa negli occhi, come a dire “Cosa c’è? Ti sei già eccitata?”
Lascia scivolare una mano nelle mie mutandine, affonda il suo dito medio dentro di me e poi lo tira fuori, completamente bagnato. Lo guarda, fa una smorfia e se lo pulisce contro la mia guancia. La mia mente è completamente annebbiata dall’eccitazione. Con una spinta mi butta sul letto, si toglie i tacchi e si siede sopra di me. Muove le labbra come a racimolare saliva, mi afferra il viso con un mano per farmi aprire la bocca e poi mi lascia cadere dentro un filo di bava calda che in quel momento mi sembra la cosa più buona del mondo.
– Grazie… – sussurro con gli occhi semi chiusi senza quasi rendermene conto.
Uno ceffone violento mi colpisce il volto spostandomi la faccia di lato. Apro gli occhi, Mahiro mi guarda e ride. Il riso malvagio e folle di una ragazzina che si diverte a sciogliere gattini nell’acido. Me ne molla un altro ancora più forte, e poi un altro ancora sempre più veloci mentre il suono degli schiaffi si mescola alle sue risate.
Mahiro si ferma, la guardo negli occhi. È impossibile capire quello che le sta passando per la testa. Il suo sguardo sembra racchiudere una sorta di odio ancestrale, di disprezzo profondo per me, per quello che sono: una sporca occidentale che mangia il pollo con le mani, parla a voce alta e puzza di sudore.
Apre la mano per tirarmi un ultimo schiaffo ma qualcosa dentro di me mi fa reagire per istinto e senza neanche rendermene conto la blocco afferrandola per il polso. Lei spalanca gli occhi e restiamo immobili in quella posizione per alcuni interminabili secondi. Il tempo intorno a noi è come se si fosse fermato e per un attimo mi sembra di scorgere in lei una scintilla di paura. Vederla di colpo titubante e spaventata mi accende di colpo la voglia di sottomettere questa piccola stronzetta dagli occhi a mandorla. Con uno scatto la afferro per la gola, la butto sul letto e le monto sopra.
– Allora puttana, non ridi più adesso?
Mahiro digrigna i denti in una smorfia di rabbia e dolore
– Rispondi musa gialla di merda!
Tenendola per il collo le metto i piedi in faccia sbavandole tutto il rossetto.
– Tira fuori la lingua, leccami, troia cinese del cazzo! – e con questo abbatto definitivamente la barriera del politicamente corretto per colpire il suo orgoglio nipponico dove so che le farà più male – Perché non sembri neanche giapponese, dì la verità, sei solo una cinese di merda!
Ormai sono su di giri, non capisco più niente, ma stranamente Mahiro resta lì, a subire le mie angherie senza reagire. Voglio dire, avrebbe tutta la possibilità di ribellarsi, di fermarmi, di scappare, o anche solo di urlarmi “Basta! La sessione è finita!”. Eppure resta lì, e io non riesco a fare a meno di notare una sorta di eccitazione, di complicità nel suo sguardo misterioso.
Ma questa, purtroppo, è una cosa che non saprò mai con certezza perché proprio in quel momento, avvertiti da chissà quale microfono o segnale, due gorilla giapponesi spalancano la porta e irrompono nella stanza. Il primo mi afferra per un braccio e mi lancia contro il muro come fossi fatta di piume mentre il secondo corre a salvare la Mistress in pericolo. L’energumeno si fionda contro di me, mi alza per i capelli e mi molla uno schiaffo che mi spacca il labbro inferiore schizzando la parete di sangue. Mi porto una mano davanti alla bocca per proteggermi e lui me ne molla un altro più alto facendomi esplodere un sopracciglio. Il gorilla lascia la presa facendomi cadere sulle ginocchia. Mi punta il dito davanti agli occhi dicendomi qualcosa di incomprensibile in giapponese mentre io con la coda dell’occhio vedo il suo compare portare via di peso la ragazza dalla stanza. L’ultima cosa che ricordo, un attimo prima di perdere i sensi, è Mahiro voltarsi verso di me e lanciarmi uno sguardo, qualcosa come a dire “Scusa”, “Non è colpa mia”…
Ma forse è solo la mia immaginazione.

Apro gli occhi che sono quasi le 6, la sveglia si accende su una radio che sta passando una vecchia canzone dei Pizzicato Five dal titolo Mon Amour Tokyo. Sotto il mio viso, il sangue ha impregnato la moquette dell’albergo creando una macchia color borgogna che si intona benissimo con le tinte dell’arredamento. Mi trascino in bagno davanti allo specchio.
Cazzo…
Il labbro è gonfio come un canotto, il sopracciglio sinistro continua a pisciare sangue e c’è un livido viola che parte dalla tempia fino ad arrivare allo zigomo.
Oggi ci sono gli scatti del viso e che cazzo gli racconto a Toyama San? Che sono caduta dalle scale, come nelle peggiori storie di violenza domestica?

Prendo l’iPhone, c’è un messaggio vocale del mio agente.
Mi sdraio sul letto preparandomi al peggio e lo faccio partire:
“Ciao Alex, com’è andata la serata? Spero non ti sia ubriacata troppo ah ah ah. A me hanno portato a bere una roba tipo “Sochu”, “Suchu” come cavolo si chiamava… Cazzo mi gira la testa ancora adesso… Comunque ti chiamo per dirti che ieri ho parlato con lo staff e… non so come dirtelo… non te la prendere… ma pare che ci sia un problema col tuo viso. In poche parole si sono accorti che c’è una mancata simmetria del 2,5% tra il tuo occhio destro e quello sinistro… e anche per la bocca lo stesso problema. Ma non ti preoccupare, la sessione si farà lo stesso e il tuo compenso non verrà intaccato in alcun modo. Semplicemente cloneranno dei pezzi del lato destro del viso per sistemare il lato sinistro e poi con photoshop sistemeranno tutto. Almeno questo è quello che mi ha spiegato l’assistente di Toyama San al telefono, sai bene che io non ci capisco un cazzo di ste cose. Ad ogni modo oggi se vuoi puoi venire truccata solo a metà, come il cattivo di Batman ah ah ah”

Poso il telefono sul tavolino. Grazie mamma per l’asimmetria del 2,5%.

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