Non ero mai stata in una limousine. Non sono così spaziose come sembrano. Gli interni sono proprio come li vedi nei film ma c’è qualcosa che ti fa sentire su un altro piano rispetto al mondo che ti circonda. Guardo le luci sfocate di Milano attraverso i vetri bagnati ed come se il tempo qui dentro si fosse fermato. Abbiamo addosso due abiti da sera dal valore di un appartamento, due stravaganti cinture di castità ed è come se fossimo sospese in una specie di limbo, mentre corriamo verso la misteriosa serata che ci sta aspettando. Sposto la testa dal finestrino. Sul tavolino di fronte ci è stato lasciato un secchiello del ghiaccio con una bottiglia di champagne e due calici.
– A cosa brindiamo? – chiedo a Jillian mentre le verso da bere.
– Ai diciottomila dollari? – mi risponde alzando un sopracciglio.
Ci sarebbero probabilmente cose più importanti ma in questo momento non mi viene in mente nulla e quindi annuisco – Ai diciottomila.
È strano come, ancora un volta, stiamo fingendo di essere qui soltanto per vile denaro mentre sappiamo benissimo che c’è qualcos’altro. Qualcosa di oscuro e profondo. Qualcosa che non abbiamo il coraggio di chiederci.
– Quindi, cosa ci facciamo con questi soldi? – mi domanda dopo il primo sorso.
– Io pensavo prima di tutto di comprare un computer nuovo. Il mio macbook ormai ha lo schermo che…
– Senti, perché non andiamo da qualche parte?
– Da qualche parte? E dove?
– Non lo so… non ne posso più di stare a L.A., devo cambiare aria.
– Potremmo andare a Miami… io in Florida non ci sono ancora stata.
– Miami fa schifo. Andiamo a Honolulu!
– Alle Hawaii? Ma non è un posto da pensionati?
– Anche, ma ci sono un sacco di aree isolate, di posticini sperduti… Ed io ho bisogno di questo. Di stare lontana dal mondo, almeno per un po’.
– Sai, credo che siano le stesse parole che ho pronunciato cinque anni fa, quando ho lasciato Trieste per trasferirmi in Canada. Capisco che vuoi dire.
Jill abbassa lo sguardo e sorride – Beh, io cinque anni fa non ero neanche ancora nata.
Resto un attimo stupita – Che vuoi dire?
– Che non ero ancora nata.
– Mi stai dicendo che hai cinque anni? – le chiedo come fosse uno scherzo.
– Anagraficamente no… Ma tecnicamente sì.
Smetto di ridere e resto a fissarla aspettando una spiegazione. Jillian prende il mio calice per versarmi dell’altro champagne.
– Vedi Alessandra, quella sera al Providence non ti ho detto proprio tutto riguardo alla mia famiglia. La verità è che i miei genitori erano membri di un gruppo religioso di quelli… un po’ particolari.
– Tipo i testimoni di Geova?
– Tipo, ma molto più chiuso e oppressivo. Quando sono nata Mamma e Papà ci erano entrati già da tempo ed io ho trascorso i miei primi 23 anni all’interno di quelle regole. Parlo di regole… estremamente severe.
– Oddio, dev’essere stato un inferno.
– Al contrario, era bellissimo. O almeno all’inizio. Sai, quando sei una bambina è come vivere in una fiaba dove tutti si amano, dove il male non esiste e tu non devi preoccuparti di niente. Ma poi crescendo arrivano le prime pulsioni, inizi a sentirti sporca e iniziano ad arrivare le punizioni. Gli anni della pubertà sono stati terribili. Oltre a fare vandalismo nei centri commerciali sfogavo la mia repressione sessuale facendo la teppista coi ragazzini del quartiere.
– Immagino che l’autoerotismo non sia contemplato in quel regno celeste.
– Assolutamente. Pensa che la prima volta che mi sono masturbata usando le dita avevo quasi 19 anni.
– Veramente? E prima?
– Mi strusciavo contro le sedie, con i vestiti addosso. Pensavo che in questo modo Dio non mi avrebbe vista, che non se ne sarebbe accorto. Arrivi a fare qualsiasi cosa per non impazzire.
– Jill, ma come sei finita a…
– A fare questa vita? Quando sono uscita dal gruppo non ero più neanche una persona. Non ero niente. Soltanto dei frammenti di una ragazza che non esisteva più. O forse che non era mai esistita. Non hai idea di quanto siano feroci le regole di quei bastardi contro chi decide di separarsi dal gruppo. Ti eliminano completamente. Persone che il giorno prima erano la tua famiglia, che ti abbracciavano e ti coprivano d’affetto di colpo non ti guardano neanche più in faccia. Era come se fossi morta. Ero abbandonata, sola, nuda, a pezzi. E furiosa. E man mano che mi ricostruivo sentivo salire la rabbia per tutto il tempo che mi avevano rubato. Per tutti quegli anni in cui le persone normali avevano camminato, erano andate avanti mentre io ero rimasta ferma. E non volevo altro che correre, più veloce che potevo, senza freni fregandomene dei pericoli e di tutto il resto. Soltanto correre. La sera che mi sono trasferita a Los Angeles, avevo appena compiuto 23 anni, ho posato i bagagli in camera, sono uscita e ho perso la verginità nel cesso di un locale con due sconosciuti. Il giorno successivo ho iniziato a farmi di crack, poi di speed e dopo due mesi ero già sposata all’eroina. Non mi interessava più niente se non andare sempre più veloce. Sono stata in suite da 2000 dollari a notte a scopare con coppie famose di Hollywood e ho fatto la troia con la feccia peggiore della città. Ho partecipato ai party più esclusivi e leccato i pavimenti dei più lerci e pericolosi bassifondi dove neanche la polizia osa entrare. Ed ora non riesco più a fermarmi…
Continuiamo il resto del viaggio in silenzio, osservando i palazzi che scorrono dal finestrino. Jill ha di nuovo quello sguardo. Lo stesso di quella notte sulla terrazza del WP24. “La tua vendetta è la peggiore di tutte le puttane”. Mi ricordo ancora le sue parole.
Passiamo altri venti minuti di strade e semafori poi l’auto mette la freccia ed entra nel cortile di un palazzo storico dall’aria importante.
– Jill, c’è una cosa che ti devo dire. Io credo di essermi inn… – ma non riesco a finire la frase perché lei mi ferma coprendomi la bocca con la mano.
– Adesso è meglio di no. Me lo dirai dopo, quando saremo tornate all’hotel.
Il motore si spegne. Si aprono le portiere.
– Signorine, è ora di scendere. Siamo arrivati.